Il fondale marino dello Stretto di Messina è il più sporco del mondo. Nel Mediterraneo è emergenza rifiuti marini (VIDEO)

Oltre i 1.000 metri di profondità, spesso la biomassa pescata con lo strascico (pesci, crostacei, molluschi) è uguale o inferiore a quella dei rifiutiIndagati dai ricercatori anche i fondali del canyon di Nora e delle Bocche di Bonifacio

Lo studio The quest for seafloor macrolitter: a critical review of background knowledge, current methods and future prospects”, pubblicato su Environmental Research Letters  da un team internazionale che comprendeva ance ricercatori di Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), Stazione Zoologica Anton Dohrn (SZN), università di Cagliari e Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale,  rivela che la minaccia costituita dalla macroplastica per i fondali del mMediterraneo è peggiore di quanto si credesse. Secondo gli esperti, «I rifiuti stiano aumentando nei fondali marini di tutto il mondo: questo trend è destinato a continuare, tanto che entro i prossimi 30 anni il volume dei rifiuti marini potrà superare i tre miliardi di tonnellate» e « Lo Stretto di Messina, un ponte sottomarino che separa l’isola di Sicilia dalla penisola italiana, è l’area con la più alta densità di detriti marini conosciuta al mondo, con più di un milione di oggetti per chilometro quadrato in alcuni punti».

Lo studio arriva due anni dopo un importante workshop sul tema dei rifiuti nelle profondità marine organizzato a Bremerhaven, in Germania, dal Joint Research Center (Jrc) della Commissione Europea e l’Alfred Wegener-Institut (AWI), durante il quale i massimi esperti mondiali si confrontarono per giungere alla »stesura di un documento che fornisse la sintesi delle attuali conoscenze sui materiali di origine umana depositati sul fondo e sulle metodologie per migliorare il lavoro futuro, al fine di fornire informazioni dettagliate per le future misure di gestione della problematica».

Il documento fornisce una sintesi delle attuali conoscenze sui materiali di origine umana depositati sul fondo del mare e rivede le metodologie per migliorare il lavoro futuro e, secondo uno dei principali autori, Georg Hanke del JRC, «Evidenzia la necessità di comprendere l’esistenza, la distribuzione e la quantità di rifiuti al fine di fornire informazioni dettagliate sulle misure (politiche) appropriate. Il lavoro mostra anche la necessità di utilizzare nuove metodologie – altri approcci – per coprire aree che non sono state prese in considerazione in precedenza e fornire strumenti che consentono valutazioni quantitative come stabilito nella direttiva quadro sulla strategia marina».

Uno degli autori, Alessandro Cau, ricercatore di ecologia al Dipartimento di scienze della vita e dell’ambiente dell’università di Cagliari,  ha contribuito alla stesura dello studio grazie alle competenze acquisite con le ricerche svolte nei mari di Sardegna e nel Mediterraneo, il mare più inquinato al mondo e dice che «Lo studio ha partecipato ha dimostrato che ad elevate profondità, oltre i 1.000 metri, spesso la biomassa pescata con lo strascico (pesci, crostacei, molluschi) è uguale o inferiore a quella dei rifiuti. Come dire che a certe profondità ci sono più rifiuti che pesci».

All’università di Cagliari spiegano che «Numerosi siti dei nostri mari, infatti, hanno suscitato l’interesse della comunità scientifica per la loro posizione in prossimità di alcune tra le rotte navali più trafficate del Mediterraneo e del mondo: ne sono un esempio il canyon di Nora e le bocche di Bonifacio, siti che ospitano una ricchissima biodiversità che purtroppo è minacciata dalle attività umane e dalla pesca. Sul fondo di entrambi i siti – anche a 450 metri di profondità – sono stati ritrovati diversi oggetti, come pneumatici e altri detriti. Plastiche, metalli, vetro, ceramica, attrezzature da pesca, tessuti e carta sono tra i materiali più abbondanti».

Lo studio evidenzia perché i rifiuti stiano aumentando nei fondali marini di tutto il mondo: «In alcuni casi la loro densità sarebbe addirittura paragonabile a quella delle grandi discariche presenti sulla terraferma. Secondo gli esperti questo trend è destinato a continuare, tanto che entro i prossimi 30 anni il volume dei rifiuti marini potrà superare i tre miliardi di tonnellate. Delle milioni di tonnellate di rifiuti che entrano in mare ogni anno, meno dell’1% è visibile, perché viene spiaggiato o galleggia sulla superficie del mare, mentre il restante 99% sprofonda e finisce sul fondo, di cui conosciamo ancora molto poco. Anche per questo la problematica dei rifiuti in mare è globalmente riconosciuta come minaccia dilagante».

All’Università di Bercellona, che ha guidato il team di ricerca di 3 27 scienziati, sottolineano che «Il fondale oceanico è diventato una serie di grandi discariche sottomarine per l’immondizia e altri rifiuti derivanti dalle attività umane. Probabilmente le discariche più importanti – probabilmente nelle profondità marine – devono ancora essere scoperte, ma le plastiche sono già state trovate nella Fossa delle Marianne, a una profondità di 10.900 metri nell’Oceano Pacifico. In alcuni casi, le concentrazioni di rifiuti raggiungono densità paragonabili a quelle di grandi discariche.

Nonostante gli sforzi della comunità scientifica, l’estensione dei detriti marini sul fondo dei mari e degli oceani del pianeta non è ancora del tutto nota.

Il principsale autore dello studio, Miquel Canals del Departament de Dinamica de la Terra i de l’Ocea, dell’Universitat de Barcelona, ricorda che « Le regioni marine maggiormente colpite da questo problema sono i mari chiusi o semichiusi, i fondali vicini alla costa, le aree marine sotto l’influenza di grandi foci fluviali e le località ad alta attività di pesca, anche lontane dalla terraferma. Anche il livello di trattamento dei rifiuti nei paesi costieri è decisivo: meno trattamento c’è – o più è carente -, più il volume dei rifiuti raggiunge l’oceano e, quindi, il fondale marino, e questo è un problema che colpisce soprattutto i Paesi del terzo mondo».

Nelle discariche oceaniche di profonditò i materiali più abbondanti sono  plastica, attrezzi da pesca, oggetti di metallo, vetro, carta, frammenti di ceramiche e tessuti. Il rilievo del fondale sottomarino, le caratteristiche geomorfologiche e il tipo di fondale condizionano la distribuzione dei materiali nel fondo oceanico. Le dinamiche oceaniche, cioè processi come lo sprofondamento di acqua più densa, correnti oceaniche o tempeste, facilitano la dispersione e il trasporto della spazzatura attraverso gli oceani, dalle coste alle pianure abissali, fino a migliaia di metri di profondità. Ma i ricercatori fanno notare che «Questi fattori non si verificano in tutti gli ecosistemi oceanici e, inoltre, variano di intensità nel tempo.

A causa di un effetto gravitazionale, i rifiuti vengono solitamente trasportati da regioni marine dove scorrono dense correnti – canyon e altre valli sottomarine – e dove le linee di flusso sono concentrate, come nel caso dell’ambiente dei grandi rilievi sottomarini. Infine, i materiali trasportati dalle dinamiche oceaniche si accumulano nelle depressioni e nelle aree marine più calme».

La dispersione e l’accumulo di materiali sul fondo oceanico dipende anche dalle caratteristiche dei materiali scaricati.  Canals  sottolinea che «Si stima che il 62% della spazzatura accumulata sul fondo del mare sia plastica, che è relativamente leggera e facilmente trasportabile su lunghe distanze. D’altra parte, oggetti pesanti come barili, cavi o reti vengono solitamente lasciati nel punto in cui erano stati inizialmente depositati o si erano inabissati».

La spazzatura è una nuova minaccia per la biodiversità marina: è noto che circa 700 specie marine sono già colpite in vari modi da questo problema, il 17% delle quali è incluso nella Lista Rossa IUCN. Nel caso di attrezzi da pesca abbandonati sul fondo del mare, causano un grave impatto ecologico per decenni a causa del cosiddetto effetto della pesca fantasma. All’università di Barcellona spiegano ancora che «La lenta decomposizione dei componenti della rete – solitamente polimeri ad alta resistenza – aggrava ulteriormente gli effetti nocivi di questo tipo di rifiuti. Altre attività umane, come il dragaggio, la pesca a strascico, ecc., producono una dispersione secondaria che mobilita e frammenta ulteriormente i rifiuti nel fondo marino. Inoltre, i rifiuti accumulati possono facilmente intrappolare altri oggetti, generando così grandi discariche. Paradossalmente, alcuni rifiuti aumentano l’eterogeneità del substrato, della quale possono beneficiare alcuni organismi. Tuttavia, alcuni composti xenobiotici, come pesticidi, erbicidi, prodotti farmaceutici, metalli pesanti, le sostanze radioattive, ecc., sono altamente resistenti alla degradazione e mettono in pericolo la vita marina. In ogni caso, l’entità degli effetti dei detriti sugli habitat dei grandi fondali è ancora un capitolo che la comunità scientifica deve scrivere».

Su una cosa Canals non ha dubbi: «Nel caso del Mediterraneo, i rifiuti marini hanno creato un grave problema ecologico». Il problema è che,  mentre i materiali accumulati sulle spiagge e i rifiuti galleggianti possono essere identificati e controllati con metodi semplici e a basso costo, lo studio dei rifiuti  del fondale marino rappresenta una sfida tecnologica, la cui complessità aumenta con la profondità e la difficoltà di accesso alle aree marine remote.

Lo studio esamina le metodologie in grado di campionare i rifiuti nei fondali e altre tecniche basate sulle osservazioni in situ. I ricercatori evidenziano che «L’applicazione di nuove tecnologie ha permesso di far progredire studio dello stato ambientale dei fondali marini alle diverse latitudini. In particolare, l’uso di veicoli sottomarini telecomandati senza pilota (ROV) è fondamentale per l’osservazione in loco, nonostante i suoi limiti nella capacità di campionare o estrarre materiale depositato sul fondo. Anche altre tecnologie più classiche, come il campionamento con lo strascico, hanno limitazioni perché non si può determinare la posizione esatta degli oggetti campionati. Per Canals, «Le future metodologie dovrebbero aiutare a facilitare il confronto dei dati scientifici ottenuti in luoghi diversi. Dovrebbe anche essere più facile per i lavori di osservazione e campionamento produrre dataset coerenti, un aspetto che siamo ancora lontani dal raggiungere».

La conoscenza e i dati sui rifiuti dei fondali marini sono necessari per poter attuare la direttiva quadro sulla strategia marina (SPSF) e altre linee guida per le politiche internazionali e gli accordi globali. Il nuovo studio mostra come la ricerca possa fornire informazioni cruciali per la protezione internazionale e le strutture di conservazione del mare  e quindi aiutare a dare priorità alla lotta e alle misure contro i rifiuti marini e il loro grave impatto ambientale.

Gli autori dello studio avvertono che «E’ necessario o promuovere politiche specifiche per ridurre al minimo questo grave problema ambientale. Il lavoro si concentra anche sul dibattito sulla rimozione dei rifiuti dai fondali marini, un’alternativa gestionale che dovrebbe essere sicura ed efficiente».

Canals  conclude: «I rifiuti marini hanno raggiunto i luoghi più remoti dell’oceano, anche i meno (o mai) frequentati dalla nostra specie e che non sono ancora stati mappati dalla scienza. Per correggere un male, deve essere attaccata la causa. E la causa dell’accumulo di rifiuti su coste, mari e oceani, e sul pianeta in generale, non è altro che la produzione sproporzionata di rifiuti, la mancanza di controllo nella loro gestione e la poca, o talvolta zero, cura per evitare che si accumulino ovunque».

Videogallery

  • Emergenza rifiuti nello Stretto di Messina, le immagini subacquee

Fonte:www.greenreport.it

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