Alzheimer, se lo anticipi ti puoi salvare. Scienza: come evitare la malattia più temuta

Prevenire. Anticipare. Così si può combattere e magari vincere una delle malattie più subdola del mondo. La ricerca contro l’Alzheimer finora ha offerto tante conoscenze ma nessuna cura. I farmaci non guariscono la malattia, a volte rallentano qualche sintomo.

Come spiega La Repubblica, una proteina, l’ amiloide, è ritenuta la responsabile principale della malattia. È presente in tutti i cervelli ma in condizioni di normalità viene tagliata da “forbici enzimatiche” in frammenti che si dissolvono nel liquido cerebrospinale che bagna il cervello e il midollo spinale. In condizioni di patologia, invece, queste forbici tagliano nel punto sbagliato, formando frammenti che invece di dissolversi tendono ad aggregarsi, fino a formare placche, il cui deposito innesca reazioni che uccidono le cellule cerebrali.

La strategia più diffusa ed efficace è dunque per ora combattere l’amiloide. Sul solanezumab, un anticorpo che dovrebbe prevenire le placche, due grandi sperimentazioni non ha dato alcun miglioramento. Motivo? Eric Mc-Dade e Randall Bateman, della Washington University School of Medicine di St.Luis, spiegano: “Per noi la ragione cruciale di tutti i fallimenti è una: si interviene troppo poco e troppo tardi. Quando compare la demenza la malattia è ormai avanzata e molti neuroni sono già danneggiati irreparabilmente, perché si è scoperto che le placche di amiloide e gli altri fenomeni degenerativi del cervello iniziano 15-20 anni prima”.

Negli ultimi tempi dunque l’approccio alla malattia è rivoluzionato: non intervenire sui malati avanzati ma su chi mostra i lievi disturbi che spesso preludono alla demenza, il cosiddetto declino cognitivo lieve. “Aspettare i sintomi per trattare l’ Alzheimer è come aspettare che una persona abbia un infarto prima di curargli l’ ipertensione: a quel punto, non è che abbassando la pressione si ripara il cuore”.

Sono iniziate le sperimentazioni su persone senza o con minimi sintomi. C’ è chi riprova il solanezumab, sperando che somministrato presto funzioni (lo sapremo nel 2020). Chi prova altri anticorpi come il gantenerumab, che non attacca l’ amiloide disciolto ma le placche. E chi invece testa farmaci che frenano all’ origine la produzione dell’ amiloide (gli inibitori della beta secretasi).

L’Europa è all’avanguardia. “La Commissione Europea e le aziende farmaceutiche finanziano un progetto da 100 milioni di euro, il più grande al mondo sull’ Alzheimer: Epad», spiega Giovanni Frisoni, neurologo,  Direttore dell’Unità di Epidemiologia e Neuroimmagine Alzheimer, IRCCS Fatebenefratelli, Brescia. Frisoni coordina i rami italiano e svizzero. La ricerca sta arruolando volontari, occorreranno 5-7 anni per i risultati. “Non basta che le terapie riducano l’ amiloide: devono prevenire la demenza”, precisa Frisoni.

Un’altra importante sperimentazione, racconta sempre Repubblica, è quella letta su Nature di McDade e Bateman. I partecipanti hanno una rara mutazione che, alterando la sintesi dell’ amiloide, rende certo il rischio di Alzheimer. “Anche noi diamo i farmaci quando l’ amiloide si sta depositando”, dicono i due studiosi, “ma in questi pazienti, dal percorso di malattia prevedibile, potremmo fare di più: intervenire ancora prima, per prevenire del tutto la patologia cerebrale”. Al centro c’è sempre l’amiloide.  E nasce un sospetto: visti i tanti fallimenti dei farmaci, c’ è ipotizza che non sia una causa ma un mero effetto secondario della malattia. Prevenirne del tutto l’ accumulo e vedere che succede placherebbe questi dubbi.

via Libero

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